Esistono ancora diverse definizioni attribuite al sushi, e la prima riconosciuta nel mondo occidentale coincide con “rotoli di pesce crudo e pochi altri ingredienti avvolti intorno a riso bianco” (1).
In realtà, nonostante questa sia la forma che oggi attribuiamo a questo alimento, la sua origine risale alle necessità di conservazione di un tempo ormai lontano. Le sue origini, infatti, risalgono al IV secolo in Cina, dove il pesce salato veniva messo per la prima volta nel riso cotto, il che faceva sì che il pesce subisse un processo di fermentazione. Quest’ultima consentiva dei tempi di conservazione superiori, e così si diffuse l’idea di usare il riso acetato e fermentato come conservante (2).
In Giappone questa pietanza si diffuse nel IX secolo con una rapidità tale da diventare alimento tradizionale in poco tempo. Oggi, è un alimento diffuso a livello mondiale e le moderne tecnologie di conservazione hanno portato ad abbandonare i sistemi di conservazione passati lasciando spazio alle basse temperature.
Definire nutrizionalmente il sushi non è cosa semplice. Ogni Paese ha una storia gastronomica che ha portato alla maturazione di gusti differenti; dunque, per rispettare i gusti locali, le cucine non tradizionali ed esotiche sono state rimaneggiate e adattate alle preferenze del luogo, spesso “snaturalizzandosi”.
Il sushi ne è un perfetto esempio: possono essere infatti rotoli di semplice riso e pesce, con verdure, oppure arricchiti con salse caloriche (come maionese o crema di formaggio), possono essere fritti, conditi, speziati, fusion, etc.
Nonostante questa varietà, è comunque possibile delineare delle caratteristiche che accomunano la preparazione del sushi a livello mondiale, ovvero che:
– tra le varietà di riso consigliate spicca soprattutto la sottospecie Japonica (Oryza sativa L. subsp. japonica) (3);
– al riso cotto vengono generalmente aggiunti aceto di riso (che fornisce il gusto), zucchero e sale (che bilanciano l’acidità dell’aceto) (4).
– il topping più usato prevede pesce crudo (1).
Zucchero
Alla base del sushi vi è generalmente il riso. Quest’ultimo è un cereale composto da carboidrati (~77%), grassi (~2%), proteine (~8%) e acqua (~12%) (5) e, di per sé, è un alimento che può essere considerato sano, seppur caratterizzato da un indice glicemico elevato (6). Tuttavia, a questo alimento vengono aggiunti sia sale che zucchero, i cui effetti sulla salute sono ormai noti. Sapendo che secondo l’OMS è opportuno limitare il consumo di zuccheri liberi a non più del 10% dell’apporto calorico giornaliero (7) e che in una porzione da 8 pezzi di sushi vi siano in media circa 9,5 g di zucchero, è facile capire come questo alimento partecipi negativamente all’assunzione di zuccheri nella dieta.
Sale e coloranti
Non bisogna dimenticare il sale: è infatti importante tenere a mente che il sushi, oltre ad avere sale addizionato alla preparazione del riso, viene abitualmente intinto nella salsa di soia, caratterizzata dall’avere circa 17 g di sale su 100 ml di prodotto.
Altro condimento frequentemente usato è il wasabi e può capitare che, quello che viene venduto confezionato e dal colore verde brillante, possa non essere realmente wasabi ma la radice cui è stato addizionato del colorante alimentare, tra cui l’E110, i cui effetti sulla salute sono stati discussi più volte (8).
Freschezza del prodotto
Anche se non ci sono molte informazioni sul possibile ruolo dell’aceto a parte quello di dare acidità, è stato riportato che l’aggiunta di acidi come l’acido ascorbico, l’aceto di riso o i succhi di frutta all’acqua di cottura eliminano i cambiamenti indesiderati nella consistenza del riso cotto invecchiato, ripristinando la freschezza (9). Questo potrebbe essere “problematico” poiché grazie alle proprietà dell’aceto, i ristoratori potrebbero proporre un prodotto non realmente fresco.
A proposito di freschezza, è importante sottolineare anche quella del pesce, un alleato della salute in quanto fonte di grassi “buoni” e proteine ma potenzialmente dannoso se non correttamente conservato.
Uno studio condotto in Norvegia, ad esempio, ha rilevato il batterio mesofilo Aeromonas spp nel 71% di 58 campioni esaminati (10). Questo batterio è noto per causare problemi gastrointestinali, infezioni della pelle e dei tessuti molli. I ricercatori hanno scoperto che, probabilmente, è stato lo scarso controllo della temperatura durante il trasporto tra la fabbrica e il negozio il problema principale lungo la filiera.
La scelta di un topping crudo come le verdure, inoltre, se le condizioni di conservazione non sono ideali, potrebbe portare a contaminazione crociata aggravando ulteriormente la situazione.
Topping
Ultima ma non ultima la scelta del topping. Qui è abbastanza semplice: se vengono scelti dei piatti semplici composti da una base di pesce crudo e poco altro, oltre a quanto riportato sopra, il prodotto non dovrebbe essere “unhealthy”. Preparazioni più complesse ricche di salse o fritte, invece, aumentano notevolmente l’apporto calorico.
In ragione di quanto affermato, è facile capire come il sushi, se non scelto attentamente, non è un alimento così healthy come viene generalmente reputato.
È importante dunque saper scegliere accuratamente il locale dove si consuma e pietanze non eccessivamente “pasticciate”. Bisogna considerare la freschezza dei prodotti ed è inoltre possibile seguire alcuni accorgimenti per avere la sicurezza di star mangiando un alimento davvero healthy:
– Si potrebbe optare per il sashimi, privo di salse extra e senza riso condito di accompagnamento;
– Si potrebbe limitare il quantitativo di soia o preferire delle alternative come, ad esempio, gli amminoacidi derivanti dal cocco;
– Si potrebbe scegliere sushi a base di riso integrale;
– Infine, si potrebbe provare a fare una versione casalinga, così da godersi un buon piatto con la sicurezza di sapere esattamente quello che si sta mangiando.
1. Toratani, K. (2022). loanword sushi in English. The Language of Food in Japanese: Cognitive perspectives and beyond, 25, 161.
2. Rath, E. C. (2021). Oishii: The History of Sushi. Reaktion Books.
3. Hong, Y.-J., Lee, J.-H., Oh, S.-K., Yoon, M.-R., Choi, I.-S., Park, J.-H., … Kim, C.-K. (2012). Caratteristiche qualitative delle varietà di riso adatte al sushi. GIORNALE COREANO DI SCIENZA DEL RACCOLTO, 57 (4), 436–440. https://doi.org/10.7740/KJCS.2012.57.4.436
4. Molina, C. N., Garzón, R., & Rosell, C. M. (2022). Unraveling seasonings impact on cooked rice quality: Technological and nutritional implications for sushi. Journal of Cereal Science, 104, 103442.
5. Repaci, E., Allieri, F., & Rondanelli, M. QUALITÀ NUTRIZIONALI DEL RISO E CONFRONTO CON GLI ALTRI CEREALI Nutritional aspects of rice and comparison with other cereals. SEMINARIO RISO, 112.
6. Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (2019). Dossier Scientifico delle Linee Guida per una sana alimentazione (Edizione 2018).
7. World Health Organization. (2015). Guideline: sugars intake for adults and children. World Health Organization.
8. EFSA Panel on Food Additives and Nutrient Sources added to Food (ANS). (2014). Reconsideration of the temporary ADI and refined exposure assessment for Sunset Yellow FCF (E 110). EFSA Journal, 12(7), 3765.
9. Ghasemi, E., Mosavian, M. H., & Khodaparast, M. H. (2008). The effect of acetic and lactic acid on the oil uptake, texture and color of rice (Sang Tarom) during cooking. World Applied Sciences Journal, 4(2), 183-187.
10. Hoel, S., Mehli, L., Bruheim, T., Vadstein, O., & Jakobsen, A. N. (2015). Assessment of microbiological quality of retail fresh sushi from selected sources in Norway. Journal of food protection, 78(5), 977–982. https://doi.org/10.4315/0362-028X.JFP-14-480.
L’acqua in bottiglia, nota come minerale naturale, è un’acqua microbiologicamente pura che si origina a partire da una o più sorgenti naturali o perforate (falda acquifera o giacimento sotterraneo) e, una volta captata, viene imbottigliata alla sorgente al suo stato naturale mantenendo delle caratteristiche chimico-fisiche e igieniche distintive. Data la sua natura, presenta un tenore in minerali (principalmente magnesio, ferro, calcio, silicio, sodio) superiore rispetto alle altre acque; tuttavia, questo dato non fa sì che siano preferibili rispetto alle altre, se non in caso di specifiche esigenze o carenze nutrizionali.
Il regolamento che ne disciplina la commercializzazione è il D.L. n.176 del 8 ottobre 2011 e stabilisce che non possono essere sottoposte a trattamenti che alterino la loro purezza originale (1), però, il packaging scelto, può influire negativamente sugli elementi presenti nell’acqua a lungo termine. A tal proposito, recentemente è stato osservato un aumento di microplastiche nella matrice fecale in soggetti soliti consumare acqua in bottiglie di plastica (2) ma i potenziali rischi per la salute nell’ingestione di microplastiche non hanno ancora raggiunto un parere unanime da parte della comunità scientifica. In ogni caso queste acque, prima di poter essere commercializzate tal quali, devono sottostare a rigorosi processi di valutazione delle proprie caratteristiche così da risultare idonee e sicure al consumo.
Le acque che non coincidono con le acque minerali naturali ma che sono comunque destinate ad un uso potabile, alla preparazione di alimenti e bevande domestiche o industriali o comunque destinate ad essere ingerite dall’uomo, rientrano in questa categoria. Chiamate “acque destinate al consumo umano”, vengono prelevate da sorgenti, pozzi o da corpi idrici superficiali naturali o artificiali, come laghi e corsi di acqua (1). Il tenore in minerali risulta inferiore, ma questa considerazione potrebbe essere fatta anche tra le diverse acque minerali naturali, poiché questo fattore dipende dalla fonte dalla quale si estrae.
In Italia, le acque del rubinetto vengono gestite grazie al decreto legislativo n. 31 del 2001 (i cui allegati II e III sono stati modificati con il DM del 14 giugno 2017 e successivi aggiustamenti) ma non molto tempo fa, per garantire un ulteriore rispetto dei parametri qualitativi, a fronte delle crescenti preoccupazioni legate all’inquinamento ambientale, è stata pubblicata in Europa la Direttiva (UE) 2020/2184, che introduce delle norme riviste al fine di proteggere la salute umana e allineare le caratteristiche dell’acqua erogata agli standard di salute e sicurezza emergenti (3). In ogni caso, l’acqua del rubinetto viene sottoposta ad un processo di potabilizzazione e diversi controlli analitici da parte del Gestore del Servizio Idrico Integrato e dell’ente competente ai controlli (Asl) che verificano periodicamente il rispetto dei parametri legislativi e igienico-sanitari e, secondo quanto emerge dal resoconto pubblicato dal Ministero della Salute, l’Italia presenta i valori tra i più alti in Europa in termini di qualità (4).
Insomma, le differenze effettive che si possono riscontrare tra acqua in bottiglia e del rubinetto sono solo quelle legate al tenore di minerali, alla legislazione di riferimento e al luogo di captazione, ma sicuramente non quelle legate alla sicurezza e igiene al consumo che, in entrambi i casi, rimangono standard imprescindibili per garantire il servizio di erogazione e distribuzione.
1. ARPAV. (2021). Acque potabili.
2. Yan, Z., Liu, Y., Zhang, T., Zhang, F., Ren, H., & Zhang, Y. (2021). Analysis of Microplastics in Human Feces Reveals a Correlation between Fecal Microplastics and Inflammatory Bowel Disease Status. Environmental science & technology.
3. Ministero della Salute. (2021). Normativa di riferimento della qualità dell’acqua destinata al consumo umano. Data di pubblicazione: 15 settembre 2016, ultimo aggiornamento 25 agosto 2021
4. Ministero della Salute. (2021). La qualità delle acque in Italia. Data di pubblicazione: 7 ottobre 2016, ultimo aggiornamento 25 agosto 2021
Come ormai noto, i metodi per valutare lo stato nutrizionale dei diversi soggetti si differenziano in base agli obiettivi da raggiungere. A tal proposito, tra le metodologie antropometriche più utilizzate anche nella “autodiagnosi” (in ogni caso sconsigliata), primeggia l’Indice di Massa Corporea (IMC o BMI), una misura predittiva che tuttavia non consente di evidenziare la reale correlazione tra un aumento di peso e la localizzazione di questo aumento in uno specifico distretto del proprio organismo (dunque non differenzia massa grassa e magra) (1).
Per poter effettivamente attribuire la “responsabilità” di un aumento di peso all’accumulo di liquidi sono necessari esami specifici (e dunque non fattili autonomamente ma solo da esperti qualificati) come, ad esempio, la bioimpedenziometria (BIA).
Quest’ultima è un metodo utilizzato per valutare la composizione corporea nella pratica clinica che si basa sulla differenziazione della tipologia di tessuto in base alle specifiche proprietà di conduzione degli stessi (2) (i fluidi cellulari sono tendenzialmente conduttori mentre le membrane condensatori). Dunque, senza esami di questa natura, attribuire il sovrappeso a condizioni di ritenzione idrica non è supportato dall’evidenza scientifica.
La quantità di acqua totale nel corpo umano varia in base a diversi fattori (età, sesso, composizione corporea, peso) passando dall’85% sul totale del peso corporeo nei neonati fino a circa un 50-75% negli adulti. Se negli individui normopeso la massa grassa copre il 15-20% del peso totale per gli uomini e il 20-25% per le donne, nei soggetti sovrappeso o obesi invece occupa una percentuale superiore arrivando anche a superare il 35-40% del peso complessivo. Questa quota superiore, dunque, preclude l’attribuzione dei chili di troppo all’acqua in eccesso poiché, come noto, una maggior presenza di massa grassa, implicita un quantitativo di liquidi inferiore (il tessuto adiposo, infatti, è quello che nel nostro corpo possiede appena il 10% di acqua, contro il 75% di muscoli e organi interni e il 30% del tessuto osseo) (3).
Come ricordano anche le linee guida per una sana alimentazione, l’acqua non contiene energia e, in tal senso, ogni variazione del peso corporeo associata ad una maggior perdita o maggior ritenzione di acqua è ingannevole e momentanea.
La ritenzione, infatti, se non causata da specifiche patologie o particolari intolleranze, è un fenomeno passeggero che può essere risolto con la riduzione di alimenti gravanti sull’equilibrio idrosalino (come quelli ricchi di sodio) e sicuramente non riducendo, come molti pensano, il consumo di acqua ingerita (3).
Quando ci si trova in condizioni di sovrappeso, in alcuni casi, può succedere che per perdere qualche chilo ci sia affidi a inadeguati ed “estremi” regimi farmacologici e alimentari. La ritenzione idrica in questi casi diventa non causa ma conseguenza.
L’uso prolungato di farmaci lassativi o diuretici a scopo dimagrante (assolutamente sconsigliato!), ad esempio, può alterare lo stato fisiologico (in equilibrio) dell’organismo causando un accumulo di liquidi localizzato, noto come edema, portando l’organismo, nei casi più estremi, a sviluppare anche condizioni patologie non infiammatorie e debilitanti come la sindrome dell’edema ciclico idiopatico (4).
In ogni caso, come evidenziato, la correlazione tra eccesso ponderale e ritenzione idrica non rappresenta una verità o un dato di fatto. Anzi, le due condizioni presentano pochi punti in comune e non sono sicuramente interscambiabili tra loro. Tuttavia, quando presenti in concomitanza, possono essere fattori di rischio per patologie più complesse a carico di organi come i reni ed è necessario affidarsi ad un esperto.
1. Markova, A., Boyanov, M., Bakalov, D., & Tsakova, A. (2020). Body composition indices and cardiovascular risk in type 2 diabetes. CV biomarkers are not related to body composition. Open Medicine, 15(1), 309-316.
2. Lebiedowska, A., Hartman-Petrycka, M., & Błońska-Fajfrowska, B. (2021). How reliable is BMI? Bioimpedance analysis of body composition in underweight, normal weight, overweight, and obese women. Irish Journal of Medical Science (1971-), 190(3), 993-998.
3. Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (2019). Dossier Scientifico delle Linee Guida per una sana alimentazione (Edizione 2018). https://www.crea.gov.it/web/alimenti-e-nutrizione/-/nuove-linee-guida-per-una-sana-alimentazione-edizione-2018-
4. Bernini, G., Taurino, C., Bardini, M., Salvetti, G., Moretti, A., & Salvetti, A. (2006). L’edema ciclico idiopatico. Realtà o fantasia?. L’Endocrinologo, 7(3), 147-156.
A differenza di altre categorie di alimenti presenti sul mercato, come ad esempio i “biologici” o quelli “equo solidali” che sono definiti così in base a prescrizioni normative, il concetto di “superfood” non è attualmente regolamentato e viene ricondotto più che altro alla sfera del marketing. La definizione generica che viene data ai superfood è di “alimenti che presentano alti livelli di sostanze nutritive o fitochimiche bioattive che possono avere benefici sulla salute” (1).
Tra le proprietà che più spesso vengono attribuite a questi alimenti emergono soprattutto gli effetti “anti-aging” e protettivi contro la sindrome metabolica, situazione in cui concorrono glicemia, colesterolemia e pressione alta che aumentano il rischio di diabete di tipo 2 e delle malattie cardiovascolari. Tuttavia, questo “potere protettivo” nella maggior parte dei casi non è supportato da evidenze scientifiche forti o risultati significativi (2). L’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA), a tal proposito, di recente ha vietato l’utilizzo della parola superfood nei casi in cui i produttori non siano in grado di fornire tangibili evidenze scientifiche sulle effettive qualità del prodotto definito tale (1).
In ogni caso molti degli alimenti che oggi hanno questa nomea (come, ad esempio, bacche di acai, frutti rossi, bacche di goji, avocado, aglio, semi di chia, lino e canapa, maca e spirulina) sono effettivamente ricchi di composti bioattivi e micronutrienti ma, effettuando un semplice confronto, ci si accorge di come i superfood non abbiano caratteristiche superiori rispetto a molti degli alimenti che siamo soliti consumare nella vita di tutti i giorni.
L’avocado, ad esempio, è un “superfood” originario del Sud-America che negli ultimi anni ha rivestito il ruolo di “healthy food” sul web e non solo. È fonte di fibra, potassio e vitamina C (100 grammi di prodotto fresco presentano 450 mg di potassio, 3,3 g di fibra e 18 mg di vitamina C) ed è particolarmente ricco in acidi grassi monoinsaturi (MUFA = 83,36%) e polinsaturi (PUFA = 6,59%).
Senza sposarsi geograficamente lontano, tuttavia, esistono altrettanti alimenti in grado di apportare i micronutrienti che fornisce questo frutto, se non di più, come può essere il pistacchio.
Quest’ultimo, originario del bacino Mediterraneo, su 100 g di prodotto è ricco di potassio (972 mg), ferro (7,3 mg), fosforo (500 mg), magnesio (158 mg), rame (0,75 mg) e tiamina (0,67 mg) e presenta un notevole quantitativo di MUFA (69,16%) e PUFA (20,21 %) (3).
Questo è solo un esempio ma sono tanti gli alimenti ai quali viene attribuito il nome di superfood senza effettivamente avere nulla in più rispetto ad altri alimenti: il cavolo Kale, che rispetto al resto delle brassicacee/crucifere non presente proprietà nettamente superiori; i mirtilli ricchi di antiossidanti che tuttavia presentano flavonoidi al pari degli altri frutti con simile pigmentazione, e, ancora, le bacche di goji ricche di licopeni i quali possono essere ritrovati tranquillamente anche nell’ormai naturalizzato pomodoro (2).
Insomma, i superfood, per quanto siano alimenti nutrizionalmente validi, non hanno nulla da invidiare agli alimenti più canonici (se non l’essere esotici e ancora poco conosciuti) ma soprattutto non hanno proprietà magiche in grado di risolvere i problemi. Questo purtroppo non lo può fare nessun alimento poiché non è il singolo alimento a fare la differenza ma il regime alimentare che si sceglie di adottare.
Seguire un regime alimentare sano e variato, come la dieta mediterranea, può effettivamente concorrere al mantenimento di un buono stato di salute, diversamente dal ricorrere all’assunzione di singoli alimenti dalle millantate proprietà.
1. Liu, H., Meng-Lewis, Y., Ibrahim, F., & Zhu, X. (2021). Superfoods, super healthy: Myth or reality? Examining consumers’ repurchase and WOM intention regarding superfoods: A theory of consumption values perspective. Journal of Business Research, 137, 69-88.
2. Dennett, C. (2020, May). What Makes a Food “Super?” Are so-called “superfoods” a marketing gimmick, or a key ingredient for health? Environmental Nutrition, 43(5),7.
3. CREA. Tabelle di composizione degli Alimenti.
La candida è un lievito che in condizioni di equilibrio colonizza le mucose del nostro organismo (intestinale, vaginale e orofaringea) senza complicazioni. Tuttavia, questi lieviti sono classificati come patogeni opportunisti, ovvero patogeni in specifiche condizioni: tra queste, cali dei sistemi di difesa specifici (sistema immunitario) e non specifici (come squilibri nella flora lattobacillare, o flora dei Lattobacilli che creano un biofilm protettivo) che portando a condizioni di disbiosi, ne alimentano la virulenza (1).
Nella maggior parte dei casi le infezioni vengono ricondotte alla subspecies Candida albicans e la forma più diffusa sembra essere quella vaginale: approssimativamente si stima che ¾ di tutte le donne abbia sperimentato un episodio di candida vulvovaginale almeno una volta nella vita e che il 5-10% di loro sia andato incontro a recidive (2). La candidosi intestinale invece è un fenomeno decisamente meno frequente e spesso dipendente, oltre che da disbiosi, da problematiche maggiori come stati immunodepressivi a seguito di operazioni invasive o malattie come l’aids.
Tra le varie strategie messe in atto per arginare il problema, la comunità scientifica ha cercato risposte anche nelle scienze della nutrizione e dell’alimentazione umana, ipotizzando, nella maggior parte dei casi, un nesso imprescindibile ma, in realtà, non dimostrato da evidenze significative, tra rimozione degli zuccheri dalla dieta ed eliminazione della candidosi (2). Ma quali sono i limiti principali di questa associazione?
L’eliminazione degli zuccheri dalla dieta ha mostrato dei risultati non esaustivi ma abbastanza convincenti nei casi di disbiosi intestinale; al contrario non vi sono evidenze chiare per quel che riguarda la disbiosi vaginale (3). Oltretutto, non esiste un collegamento diretto tra apparato digerente e canale vaginale, quindi il passaggio degli zuccheri che assumiamo con l’alimentazione dall’intestino alla vagina, sede in cui “nutrono” la Candida, non è una spiegazione logica.
In secondo luogo, decidere di eliminare lo zucchero dalla dieta perché “la Candida se ne nutre” è un concetto riduttivo. Molti microorganismi utilizzano lo zucchero che deriva dal metabolismo degli alimenti per sopravvivere. Il glucosio, tra le altre cose, si trova non solo nei carboidrati semplici (o quelli comunemente chiamati zuccheri) ma anche nei carboidrati complessi, tra cui cereali e alimenti amidacei spesso validi alleati di una sana alimentazione. Inoltre, il processo di digestione dei carboidrati complessi che avviene nell’apparato digerente prevede che tutti siano ridotti nei singoli monosaccaridi (zuccheri) per poi essere assorbiti nell’intestino ed entrare in circolo. E, ancora, il nostro organismo, in caso di necessità, è in grado di sintetizzare glucosio (la fonte energetica per eccellenza) anche a partire da altri nutrienti come grassi e proteine.
Spesso inoltre viene suggerito di eliminare non solo gli zuccheri semplici ma anche i carboidrati complessi, che come anticipato sono fondamentali per una sana alimentazione e dovrebbero apportare il 45-60% dell’energia totale. L’eliminazione di questi è legata al fatto che spesso gli alimenti che ne sono fonte subiscono dei processi di lievitazione con ausilio di microorganismi, tra cui il lievito di birra, che, secondo quanto si legge in rete, potrebbero ulteriormente intervenire nel processo di proliferazione della Candida. Anche in questo caso non vi sono evidenze sul fatto che introdurre altri lieviti alimenti la proliferazione della Candida (4).
Ciò non toglie ovviamente che la corretta alimentazione sia un fattore fondamentale per un buono stato di salute e che in generale limitare l’assunzione di zuccheri liberi, ovvero zuccheri naturalmente presenti in miele, sciroppi, succhi di frutta e succhi di frutta concentrati e zuccheri aggiunti, a meno del 10% dell’energia (se possibile anche al 5%) sia una raccomandazione sempre valida per la salute dell’organismo, a prescindere.
Per quel che riguarda la candidosi, ad oggi i trattamenti più efficaci mirano principalmente a eliminare il patogeno tramite una terapia antimicotica e a prevenire la ricolonizzazione tramite l’ausilio di probiotici (in loco) (1)(5)(6).
1. Pappas, P. G., Kauffman, C. A., Andes, D. R., Clancy, C. J., Marr, K. A., Ostrosky-Zeichner, L., … & Sobel, J. D. (2016). Clinical practice guideline for the management of candidiasis: 2016 update by the Infectious Diseases Society of America. Clinical Infectious Diseases, 62(4), e1-e50.
2. Mårdh, P. A., Rodrigues, A. G., Genç, M., Novikova, N., Martinez-de-Oliveira, J., & Guaschino, S. (2002). Facts and myths on recurrent vulvovaginal candidosis—a review on epidemiology, clinical manifestations, diagnosis, pathogenesis and therapy. International journal of STD & AIDS, 13(8), 522-539.
3. Fukazawa, E. I., Witkin, S. S., Robial, R., Vinagre, J. G., Baracat, E. C., & Linhares, I. M. (2019). Influence of recurrent vulvovaginal candidiasis on quality of life issues. Archives of gynecology and obstetrics, 300(3), 647-650.
4. Spence, D. (2010). Candidiasis (vulvovaginal). BMJ clinical evidence, 2010.
5. Pappas, P. G., Rex, J. H., Sobel, J. D., Filler, S. G., Dismukes, W. E., Walsh, T. J., & Edwards, J. E. (2004). Guidelines for treatment of candidiasis. Clinical infectious diseases, 38(2), 161-189.
6. Martinez, R. C. R., Franceschini, S. A., Patta, M. C., Quintana, S. M., Candido, R. C., Ferreira, J. C., … & Reid, G. (2009). Improved treatment of vulvovaginal candidiasis with fluconazole plus probiotic Lactobacillus rhamnosus GR‐1 and Lactobacillus reuteri RC‐14. Letters in applied microbiology, 48(3), 269-274.
Infatti, il latte vaccino pastorizzato intero (100 g) apporta 64 kcal, 3,3 g di proteine, 3,6 g di lipidi, 11 mg di colesterolo e 4,9 g di carboidrati. Inoltre, per quel che riguarda i minerali, 100 g di latte intero contengono 119 mg di calcio, 150 mg di potassio 50 mg di sodio e 0,1 mg in ferro.
Prendendo come esempio l’alternativa vegetale a base di soia, invece,100 g di prodotto, apportano 32 kcal, 2,9 g di proteine, 1,9 g di lipidi, 0 g di colesterolo e 0,8 g di carboidrati, 13 mg di calcio, 120 mg di potassio, 32 mg di sodio e 0,4 mg di ferro (2).
Generalizzando, sebbene le alternative vegetali siano molto diverse tra loro, anche in base al prodotto vegetale di partenza, è possibile affermare che il loro contenuto calorico è inferiore rispetto a quello del latte vaccino. In tal senso le bevande vegetali si configurano come più leggere e adatte a regimi ipocalorici.
Per quel che riguarda i carboidrati, se nel latte il lattosio primeggia, nelle alternative vegetali questo viene sostituito da saccarosio, fruttosio, maltodestrine, succo di mela o sciroppi, il che, nonostante una miglior qualità sensoriale, può portare a ripercussioni negative sull’indice glicemico e dunque sulla qualità nutrizionale.
In termini proteici il latte vaccino mostra un profilo DIASS (Digestibile Indispensable Amino Acid Score, metodo di misurazione che descrive il valore delle fonti proteiche) superiore rispetto alle proteine vegetali.
La composizione lipidica delle bevande vegetali invece risulta nutrizionalmente preferibile in quanto presentano principalmente acidi grassi insaturi e sono prive di colesterolo, a differenza del latte vaccino cui si associano tendenzialmente acidi grassi saturi. Per quel che riguarda i micronutrienti, infine, le differenze non sono facilmente generalizzabili in quanto spesso le bevande vegetali risultano fortificate al fine di ottenere caratteristiche sensoriali e nutrizionali più affini al latte.
A causa di queste differenze, risulta evidente come la maggior parte delle bevande a base vegetale non possa sostituire completamente il latte e che per ottenere una corretta sostituzione nella propria dieta con alternative vegetali è necessaria un’attenta valutazione legata anche all’obiettivo nutrizionale e sensoriale prescelto. È particolarmente importante, infine, valutare attentamente questa sostituzione in età pediatrica, dove la presenza di un piano nutrizionale adeguato alle esigenze di un organismo in crescita è imprescindibile.
Tuttavia, oltre alle calorie, noci, nocciole, pistacchi, mandorle, pinoli, arachidi e anacardi sono noti per la loro ricchezza in nutrienti, quali acidi grassi insaturi, proteine, fibre, minerali e composti bioattivi dalle numerose proprietà (2), che rendono questa categoria di alimenti un importante alleato per la salute (2). È proprio per questo che, secondo quanto indicato dalla piramide della Dieta Mediterranea, frutta secca e semi oleosi dovrebbero essere consumati abitualmente, ma nella giusta quantità (3). È possibile infatti consumarne anche 2 porzioni al giorno di frutta secca o semi, l’importante è che la porzione non superi i 30 grammi, equivalenti a circa 7-8 noci, 15-20 mandorle o nocciole, 3 cucchiai di arachidi o pinoli (4). In queste quantità e in sostituzione ad altri alimenti, all’interno di una corretta alimentazione, la frutta secca non fa ingrassare. Anzi, recenti studi mostrano che chi consuma più frutta secca ‘prende’ meno peso nel tempo e ha minore rischio di sovrappeso e obesità, rispetto ai non-consumatori o a chi ne consuma in quantità inferiori (5) (6). Il merito sembra essere sia delle fibre che delle proteine e dei grassi insaturi: complessivamente questi nutrienti favoriscono il senso di sazietà e possono aumentare la spesa energetica a riposo, con effetti benefici sul controllo del peso (5). Inoltre, un aspetto sicuramente interessante da considerare è che, in realtà, la frutta secca è meno calorica rispetto a quanto riportato sulle tabelle nutrizionali, poiché il quantitativo reale di calorie ‘assorbite’ dipende anche dalla matrice dell’alimento e dalla sua masticazione (7) (8).
(1) Carnevale, E., & Marletta, L. (1989). Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, INRAN. Tabelle di composizione degli alimenti. Roma.
(2) Ros, E. (2010). Health benefits of nut consumption. Nutrients, 2(7), 652-682.
(3) Bach-Faig, A., Berry, E. M., Lairon, D., Reguant, J., Trichopoulou, A., Dernini, S., … & Serra-Majem, L. (2011). Mediterranean diet pyramid today. Science and cultural updates. Public health nutrition, 14(12A), 2274-2284.
(4) Società Italiana di Nutrizione Umana. Standard quantitativi delle porzioni. Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed Energia per la Popolazione Italiana. IV Revisione.
(5) Freisling, H., Noh, H., Slimani, N., Chajès, V., May, A. M., Peeters, P. H., … & Mancini, F. R. (2017). Nut intake and 5-year changes in body weight and obesity risk in adults: results from the EPIC-PANACEA study. European journal of nutrition, 1-10.
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(1) SINU – Società Italiana di Nutrizione Umana (2014). LARN – Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana, IV Revisione. 2014.
(2) USDA National Nutrient Database for Standard Reference (Release 28, released September 2015, slightly revised May 2016).